Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

venerdì 29 gennaio 2016

Il senso del taccuino.

© 2016 weast productions
Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Esploratore senza bussola". Alla ricerca di parole per raccontare la (tua) vita attraverso il campo minato che tu (tu) mi hai chiesto di affrontare. Qui di seguito il consueto estratto:

Non ho ancora bussato che lui apre la porta e dice: “Ciao”. Come avrà fatto? Ha tempo da vendere: mi aspettava. Due che si guardano. Dirgli: come parli bene l'italiano. “Grazie. Io provare”. Varcare la soglia. Finire dentro la luce fioca. Sotto una lampadina da 40 watt. L'ombra sul muro mentre richiude non distinguibile dalla sua origine. Dice: “Prego, bere caffè”? Caffè sempre, grazie. “Prego”. Corridoio stretto e in fondo una stanza separata da una tenda marrone forse mai lavata o forse venduta così, e oltre uno spazio angusto con dentro quattro corpi e fortuna che c'è una finestrella dietro a spurgare aria calda e viziata, nulla contro i quattro corpi, eppure quattro corpi hai voglia se scaldano e non solo. “Io fare”. Il caffè è una benedizione laica in infinite situazioni della vita. Berlo è pregare nel vuoto. Lui: va via. Dove? Forse in cucina (se ce n'è una). Il rumore di un barattolo di latta che viene aperto. Di un cucchiaio che gratta la latta. Di bicchieri o tazzine. Di acqua che corre da un rubinetto. Di lui che tira su dal naso. Della caffettiera messa su una piastra. Di lui che tira su dal naso. Ancora.

venerdì 22 gennaio 2016

Lettera di una madre. (Da sotto il mare).

© 2016 weast productions

Sono morta ieri notte, morta così, senza salvare mio figlio. Prima di morire. Mio figlio aveva otto anni. Io ne avevo trentadue. Sono morta subito. Senza più forza dentro. Che se soltanto non ci mettessimo addosso queste sottane pesanti, noi donne arabe, peseremmo meno quando finiamo in mare. Il giubbotto salvagente taroccato che abbiamo acquistato in Turchia ci terrebbe magari a galla, e sia pure per finta. Per finta. Per qualche minuto. E per finta. Mi vergogno anche da morta, anzi da morta mi vergogno di più, per avere costretto mio figlio (gli altri due li aveva ammazzati una bomba, nel mio paese) a seguirmi per mare. Eppure, la Grecia sembrava così vicina, lo giuro, e sono una madre, non un'assassina. Lo giuro da madre. Una madre come ne avete anche voi, immagino, di madri, quante ne avete, che fanno la spesa ogni giorno, che vanno al lavoro ogni giorno, che crescono i figli? E che vanno a nuotare. Io sono stata una pazza, non sapendo nuotare, a mettermi su quel gommone e a metterci l'ultimo figlio rimasto. Io mi merito i vostri rimproveri, la vostra incomprensione esterrefatta, mi merito i vostri dubbi e i vostri sospetti e merito e merito e mi merito il vostro celato rancore. Una madre queste cose non le fa. Non una vera. Non una come Dio comanda. Sono, ormai, a metà del mare, a metà fra la superficie e il fondo. Mio figlio, che è più piccolo, galleggia sopra di me. Scende, però, anche lui. E io scendo e scendo e scendo, vestita, vedete, vestita com'ero. Com'ero prima di salire su quel gommone, in Turchia. E prima di andarmene. Da un posto dove le bombe mi avevano ammazzato due figli e un marito. E avevano ammazzato anche me, vedete. Già mi avevano. Ammazzata. Ero morta da tempo. Per quel bambino l'avevo fatto, per lui mi ero messa per strada. Una strada dopo l'altra. E un passo dopo l'altro. In fuga. L'avevo messo sulla barca, pregando. Pregando Dio. Che però si prende i bambini. E le loro madri. Che Dio è? Che Dio sei? Io, vi giuro, fino a un attimo prima stavo pensando a come lo avrei cresciuto, quel bambino, cresciuto per bene e come si deve, nella sua nuova città. Mi ero sentita una stupida, a pensarlo. Un'imbecille dalle lacrime facili, una che finge la miseria e chiede la pietà per poi fregarvi tutti. Ci ha pensato il mare. Ci ha pensato il mare. A farmi tacere. Vi chiedo scusa. Vi chiedo scusa per essere morta insieme ad altre 42 persone. Ieri notte. In mezzo all'Egeo. Vi chiedo scusa per essere diventata una notizia. Sono stata una sciocca e un'illusa. Avrei dovuto morire a casa mia, tranquilla, come si deve. Insieme a mio figlio. Cosa vai a importunare la gente per bene, mi chiedo, mentre scendo e scendo nel mare che non ha fine. Io, come si addice a una madre, per prima, e lui, mio figlio, qualche metro (ma nemmeno tanti) sopra di me.  

venerdì 15 gennaio 2016

Il senso del taccuino.

© 2016 weast productions
Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Il gioco (ingannevole) delle parti". Qui di seguito il solito estratto:

Un pomeriggio del 1993, sebbene non avesse fatto nulla di male, fu arrestato dalla polizia tedesca. Non oppose resistenza e anzi provò addirittura una sensazione di sollievo. Di liberazione. Ecco i fatti. Qualche minuto prima aveva imboccato la scala mobile che dalla piazza chiamata Hauptwache, a Francoforte sul Meno, conduceva al mezzanino della metropolitana. Acquistato il Corriere della Sera a un'edicola, era tornato sui suoi passi con una mezza giravolta che lo aveva immesso nella folla. Di colpo in bianco, il sistema nervoso gli segnalò l'imminenza di un disastro, che non riuscì ad evitare: si verificò nell'istante della sua intuizione. Si scontrò con una signora di mezza età. Anzi, fu lei, sopra pensiero, a venirgli addosso. Reagì allungando le braccia per evitare alla signora una brutta caduta. Nello stesso istante, i suoi occhi videro che dalla borsa che la donna portava a tracolla spuntava la testa di un cane. Un maledetto cane microscopico che per primo si mise ad abbaiare istericamente. La sua padrona recuperò il ritardo, gridando, questa volta in modo comprensibile a tutti coloro che si trovavano a passare di lì: “Al ladro, al ladro”. Non contenta, aggiunse: “Spacciatore, spacciatore”. Terminò invocando: “Aiuto!”.

martedì 12 gennaio 2016

Un secondo di luce.

© 2015 Giles Duley ospite di SpazioReale 
Quanta vita c'è in un secondo di luce? Lo straordinario lavoro fotografico di Giles Duley "One Second Of Light" realizzato per Emergency UK. Visibile QUI (video) e QUI. Per aprire gli occhi sul mondo (anche quando la luce fa male, perché è troppa), non per chiuderli. Grazie, amico, per tutto quello che ci insegni.