Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

venerdì 29 aprile 2016

Il senso del taccuino.

© 2016 weast productions
Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Quando la realtà si sottrae". Qui di seguito il (ormai lo sapete) consueto estratto:

Rientrò dalla finestra e la chiuse. Andò al computer, ripassò in rassegna tutte le fotografie. Attivò un programma di recupero file, nel caso in cui avesse cancellato per sbaglio lo scatto. Non servì. Provò a non respirare. Resistette due minuti. Riprese a respirare. Si calmò. Pensare. Ecco. Pensare. Doveva esserci un senso, in tutto questo. Non poteva essere un errore e basta. C'era dell'altro. Era la vita che si sottraeva all'intuizione capace di coglierne le infinite contraddizioni e di esaurirle. Di renderle superflue. Era la verità che rifiutava lo sguardo in grado di scovarla e di restituirla nella sua interezza. Quella fotografia non poteva che esistere nella sua assenza. Meglio. Meglio così. Concluse. Scese per strada, salì sul taxi che lo stava ancora aspettando, disse all'autista di tornare nel quartiere. Si stavano di nuovo scannando. E lui ci sarebbe stato. Non aveva fatto altro che esserci, nella vita. E gli altri, i suoi simili, non avevano fatto altro che scannarsi. Che fosse questa, la verità? Questa e basta? Tutta qua. Tutto qua.  


venerdì 22 aprile 2016

E grazie ai colleghi giornalisti.

© 2016 weast productions
Desidero anche ringraziare con affetto i colleghi giornalisti che mi hanno finora concesso lo spazio dentro al quale presentare "Infiniti passi" (Salvioni Edizioni), lo spazio per parlare di questo mestiere, dei rischi che comporta, della paura che comporta e che porta, del senso del taccuino e della macchina fotografica e del senso della cinepresa. Del senso di essere dentro la vita, appiccicati alla vita. La vita degli altri. Che è come la nostra. Grazie per offrire, in questo modo, ai giovani magari l'ispirazione a fare il mestiere del reporter. Che è un mestiere di resistenza. Resistenza alla versione precotta e predigerita del modo. Quella comoda, insomma, e, per finirla qui, quella che va bene a qualcuno. E per fortuna non a tutti.

Grazie.

Con la mia faccia da reporter vi ringrazio per avere partecipato finora alle presentazioni di Infiniti passi. E alle letture. Per avere trovato il tempo e l'interesse. Grazie per avere contribuito alla discussione e allo scambio di idee, a quello che io considero un arricchimento (per me, si capisce, mi auguro anche per voi, care lettrici e cari lettori). Grazie ai colleghi giornalisti, che hanno riservato spazio alle mie parole. Colma, tutto questo, della forza per continuare a raccontare il mondo. A mostrarlo. E a scriverlo. Attraverso la massima esposizione di sé. A costo di finire in pezzi. A costo. Vi sono molto grato. Molto. Il mio mestiere, senza chi lo prende in consegna, non esisterebbe.   











martedì 19 aprile 2016

A giovedì.


Vi aspetto con immenso piacere giovedì 21 aprile alle ore 18.00 presso la libreria Il Segnalibro a Lugano per la presentazione e discussione e la lettura di alcuni passaggi di Infiniti passi

domenica 17 aprile 2016

Dopo. Dopo esserci stati.

(c) 2016 weast productions

Dai. Dai che ci facciamo due risate. Quattro risate. Dai: che ci. Che ci. Che ci. Che sputiamo sangue. Dai che: che sputtaniamo sangue. Dai che glielo diciamo, che glielo raccontiamo, che glielo cantiamo, dai che glielo suoniamo. Dai: che glielo spieghiamo (oooocriiiistooo), per una volta, una vera volta, che cos’è. Per una volta vera. 

Che cusa l’è cosa?

Che cos'è essere così. Punto. Essere come sono io. Mentre mi fai una foto. Essere senza fondo. Ecco. Se si capisce. Se. Se si capisce. Se si capisce che cosa è essere dentro una guerra. O anche fuori. Ma dopo. Finalmente fuori. E finalmente dopo. Dopo esserci stati.



venerdì 15 aprile 2016

Il senso del taccuino.

© 2016 weast productions

Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Saetta, Chiodo, Pidocchio e gli altri". Qui di seguito il consueto estratto:

Per quel. Per quel poco che vale. E per il suo nome. Che fa quello che fa. Che fa e che fa e che fa. What's your name? Silenzio. What's your name? Che bello non venire a capo. A capo della vita. Pensare che la conosce tutta. Più di tanti. Di tanti che stanno dentro l'ovatta. Sissignore, l'ovatta. Come ti chiami, ragazzino? Più di tanti che ne sono venuti sempre fuori interi. Perché non ci sono mai entrati. «Il mio nome fa quello che fa». Ho capito, ma ne avrai uno. «Yes». E? «Yes». Più di tanti che la sanno lunga. Oh, se la sanno. Lui la conosce tutta, la vita. Più di quelli che sanno come si fa. Come si deve fare. Se la conosce. «Saetta». Come? «Saetta. Sei sordo?». Il suo nome è Barak. In italiano qualcosa come fulmine. O saetta. «Do you speak English?», chiede. La domanda accende il coro: «Do you speak English?». Cinque, sei, sette, e altre, ancora altre voci, che stanno lì attorno. Ciao mocciosi. E il coro fa: «Ciao!». Ciao animaletti spelacchiati. E il coro fa: «Ciao!» Furbi. Come soltanto la vita è capace di farti diventare furbo quando ci sei dentro fino al collo e per arrivarti al collo, alla loro età, la vita non è che debba fare miracoli. Basta che si alzi di un metro e qualcosa. Che poi la parola “miracoli” è fuori luogo. Detto fra parentesi. Quanti anni avranno? Dai sette agli undici, massimo dodici. «How old are you?» E il coro fa: «How old are you?» Non se ne esce. Uno fa segno con le dita delle due mani: otto. Un altro indica il numero scritto sulla maglietta da calciatore che indossa un suo compagno: dieci. Dieci anni. Se li metti tutti insieme, arrivi a malapena a cent'anni. Se metti insieme le loro storie, non basta una vita. 

martedì 12 aprile 2016

Infiniti passi.


È in libreria. Dentro: molte storie, che si intrecciano. E poi: la guerra, la vita (sì: la vita), l'amore (probabilmente anche questo), la voglia di farcela (nella vita), la speranza, la paura, incontri, domande, dubbi, qualche certezza. Anche 42 scatti.

Presentazione questa sera alle 18.00 a Bellinzona presso l'Auditorio della Banca Stato. Siete cordialmente invitati. (Il 21 aprile alle 18.00 anche presso Il Segnalibro a Lugano). Il mondo non si racconta mai abbastanza.


venerdì 8 aprile 2016

Martedì giro il libro.

Martedì 12 aprile giro il libro.

Nell'attesa, vi comunico che alle 18.00 dello stesso giorno avrò il piacere di presentarlo al pubblico insieme all'editore Salvioni presso l'Auditorium della Banca Stato a Bellinzona. Leggerò alcuni passaggi da questo mio romanzo-reportage e ne discuterò con chi vorrà esserci. Vi aspetto con grandissimo piacere.

Il 21 aprile alle 18.00 lo presenteremo invece presso la libreria “Il Segnalibro” a Lugano (seguiranno info).  

© 2016 SalvioniEdizioni / Gianluca Grossi

domenica 3 aprile 2016

Seguimi: dove sto andando.

(c) 2016 weast productions

E io. Che non so più fare nulla. Se non raccontarti quella che sono stata. Perché temo di dirti quella che sono, quella che sono davvero. Dovrei urlarti dentro alla bocca che non sono più nessuno. Staccati. Andiamo. Seguimi. Non te lo chiedo, ma seguimi. Vieni con me dove le temperature scendono sotto lo zero e io non so nemmeno che cosa significhi. Che cosa diventerò? Chi sarò, fra metti tre mesi, fra quattro, fra cinque. Fai sei. Fai fra sei. Sei mesi. Chi? Fammi. Fammi. Fammi sentire qualcuno. Raccattami. Raccattami dal cielo. Quando sarò alta, in alto. Alta sulle ali. Allungherai una mano. Ecco: allungala e pigliami. O pigliami. Tirami a terra: un aquilone. E: raccoglimi, come un sacco di ossa. Che la mia terra, vedi, che la mia terra. Che la mia terra ha l’odore dell’Afganistan. Che la mia terra ha l’odore della Siria. E raccontami che cosa hai visto, chi hai incontrato, che fine ha fatto, che fine ha fatto, che fine ha fatto il tuo collega. Il tuo collega tedesco. Quello che scattava fotografie nemmeno fossero d’oro le pellicole che usava. Una al giorno. Una. Alexander. Che nome buffo.

Dimmi, col  sudore della fronte, che cosa hai visto. Dimmi col sudore sugli occhi. Dimmi: che cosa? Che cosa hai capito di noi? E del mondo? Che cosa hai capito delle bombe che ti sono arrivate vicine? E dei proiettili che ti hanno fatto il solletico? E di quelle scene che ti hanno sballato la testa? Fottuto il cervello. Ecco. Fottuto il cervello. Che cosa hai capito di quella, di quella, di quella bambina incontrata a Kabul? Dimmi di lei. Anche di lei. Che fine ha fatto, dentro di te, signor giornalista? Signor Arthur? Che fine ha fatto? Uomo? Sei un uomo, no? Sei? Sei un uomo: Arthur? Che fine ha fatto la bambina afgana? 

Prendimi, ora, per mano, ma non darlo a vedere. Seguimi: dove sto andando. Anticipa, anzi, anticipa il mio arrivo. Voglio che sia io a trovarti. A trovarti lì che mi aspetti. Me e tutti gli altri. Dimmi, dimmi. Dimmelo, bastardo che fai finta di non esserlo, dimmi che non sei morto dentro. Che poi, forse, io. Io ti dirò addio. 


(Il 12 aprile è fra nove giorni. Cosa viene dopo un’ouverture? Un prologo? Per ritardare, ecco, per ritardare l’inizio. Affinché non abbia mai fine. Anche se, tutto questo, potrebbe c’entrare un emerito zero).  

sabato 2 aprile 2016

Due, che si baciano.

(c) 2015 weast productions

Due, che si baciano dentro la città. Con la lingua che sa di zenzero. E di menta. E, quella di lui, per essere onesti onesti, anche un po' di cipolla. Seppure lontanamente. Come un ricordo. Un ricordo di cipolla va bene, lo scambieresti per del cumino, con uno straccio di fantasia, che non guasta mai. 

Per lei è cumino, per lei che di fantasia ne ha da vendere e ora è già altrove, e chissà quale, quale altrove. Stringimi, stringimi bastardo, portami via da questa città che è grande, troppo grande, e non ha più voglia di vivere. Ti prego: solleva la mia ombra e fanne la mongolfiera invincibile che adorerei essere (ossìadorerei). 

Fai di me la donna cannone senza peso, la grassona che ha preso il volo, trasforma le mie quattro ossa in una benedizione del cielo e gonfiale, con tutto il fiato che mi pompi in gola, gonfiale fino a involarle che nemmeno, vedi, che nemmeno, vedi, che nemmeno la torre di controllo potrebbe ordinarci di non decollare. E poi: are, are, are. Che bello: are. Mi sembra che sia questo che tu, baciandomi, mi stai dicendo, giù per la gola. Circolare. Circolare? Che sia? Che sia questa, la parola? Circolare? 

Che circolino i povericristi, che circolino le ombre senza nome e senza paese, che circolino quelle figure, queste figure, infilate dentro pezzi di stoffa regalati (mi piace, di nuovo, il ritorno, la memoria della parola che ritorna: ati, ati, ati), regalati da una pietà che è soltanto furbizia del superfluo. Di chi ha troppo. Le ombre che ora ci sfiorano e qualcuna mi tocca, per poco, per poco, per poco mi tocca, ma vedi è più, vedi, è più, vedi è più un rintocco. Un rintocco di vita. Le ombre che ora sfiorano me e sfiorano te che ancora mi baci, che ancora mi stai baciando e ci sfiora anche quell'imbecille che se non mi sbaglio ci sta facendo una fotografia che tanto verrà mossa, verrà sfocata e mi auguro anche che verrà scura. Così non ci riconosce nessuno. Anche se poi, per finire, e per finirla, mi andrebbe di essere riconosciuta, nelle tue braccia, strapresa come sono di te, strapresa di voglia di andarmene via. 

La stessa voglia che hanno quelle ombre, queste ombre, senza nome, senza vita, senza nessuno che le prenda per buone. Queste facce. Facce facce. Queste facce da profughi. Come, vedi, come. Vedi. Come la mia. Con la stessa voglia di andarmene. E sia pure appesa alle tue labbra. Per ora. Tuttavia: di andarmene. Via. E che sia. Sia. Che sia nuova vita.


(Il 12 aprile è fra dieci giorni. Chiamiamola: ouverture. Anche se, forse, non c'entra nulla. Forse).   

venerdì 1 aprile 2016

Il senso del taccuino.


(c) 2016 weast productions
Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: "Quando la vita ride". Qui di seguito il (consueto…) estratto:

Non c'è come prenderla con umorismo. La vita. Comunque vada. È sempre più facile da dire, d'accordo. L'alternativa, però, qual è? Quale sarebbe? Trascorrere le giornate al buio, forse? Prendersi a schiaffi in faccia? Passare e ripassare al rallentatore ciò che non si lascia più cambiare? Guardare al futuro con rabbia e paura? Non c'è come prenderla con umorismo, la vita. È una verità che si dimostra da sé. È lei a volere essere presa così. Scusa? Sì, è la vita che vuole essere presa ridendo. Il più possibile, si capisce. Non si può sempre sempre. Il più possibile, sì. A volte sembra divertirsi nel preparare lentamente un colpo di teatro che avrà noi come spettatori. Questi preparativi possono durare anche più di un giorno. È un lavoro accurato che la vita, per quanto possa sembrare paradossale, prende sul serio. L'umorismo è una cosa seria. Non si improvvisa. Qui non stiamo parlando di attori professionisti. Stiamo parlando di persone qualunque. Quando riescono a farci ridere, in particolare parlando dei loro problemi, ci permettono di guardare la vita per quella che è. Il nostro sguardo riesce allora a cogliere tutto, a creare i collegamenti, a prendere le distanze, per un attimo, per quanto passeggero. Ridere è un atto di ribellione.