Raccontare


SPAZIO ALLE STORIE CHE NON SONO STATE RACCONTATE ALTROVE. ALLE PERSONE INCONTRATE E RIMASTE SUL TACCUINO. OPPURE A QUEI PENSIERI CHE MI PASSANO PER LA TESTA VELOCI COME UNA PALLOTTOLA: SE NON LI FERMASSI, LI PERDEREI.

lunedì 29 gennaio 2018

Sospiri di quartiere / 2.

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A richiesta Faccia da Reporter propone la continuazione di "Sospiri di quartiere". Non soltanto a richiesta. Una storia si rifiuta di non essere continuata. È più forte di lei: vuole andare avanti.  

E tu, cosa avresti potuto fare?, mi chiede, senza avvisaglie. Forse la stessa cosa che hai fatto tu, rispondo. Ride. Dice: ma la scriverai davvero, questa storia?

   Questo era il finale. 

   Ho scritto la prima parte della storia. E lei l'ha letta. Gliel'ha tradotta un amico comune: vive anche lui nella stessa città, che ancora non sono autorizzato a nominare. È un bastardo simpatico. Ho molti amici bastardi, quasi tutti. Tanti sono finiti in questa città. Lui guidava una jeep blindata, in Iraq. Dal 2003 al 2006, quando gli avevano sparato a un piede. Quelli che gli avevano sparato si erano avvicinati e uno che parlava inglese gli aveva illustrato due possibilità: o farsi ammazzare subito come un cane oppure andarsene dall'Iraq. Lui aveva risposto: “Fuck you”. L'altro aveva capito che se ne sarebbe andato e lo aveva lasciato lì a provare il dolore che fa un proiettile quando ti spappola una caviglia, entrando dritto dal malleolo. Aveva fatto le valigie tre settimane dopo, giusto il tempo di stare in piedi da solo.  

   Questo mio amico, che ai tempi (guarda un po': lo avevo conosciuto in Iraq) si faceva chiamare Jazz, e che ancora oggi si fa chiamare Jazz, come la musica Jazz o come il profumo di Yves Saint Laurent (lui dice che è per il profumo), non è molto raccomandabile. Lo è soltanto moderatamente. Uno che ha guidato un gippone blindato in Iraq meriterebbe tre anni di galera, al diavolo la presunzione di innocenza. Come lui ce n'erano di tutte le nazionalità: polacchi, serbi, montenegrini, georgiani, italiani, svizzeri, francesi. C'era di tutto. Non importa, stiamo per parlare d'altro.

   Jazz è rumeno e parla italiano. Con l'inglese se la cava. Quindi le ha tradotto il racconto che ho mandato in copia sia a lei che a lui, assecondando il desiderio che lei aveva formulato di sapere che cosa avrei ricavato dal nostro incontro e dalla lunga conversazione che abbiamo avuto al tavolino di un caffè, seduti all'aperto, per caso più che altro, come per caso succede tutto nella vita. Per caso vai a letto con una donna, per caso lasci la pelle da qualche parte: tutto per caso. E per questa piuttosto che per quella ragione. 

   “Sospiri di quartiere” le è piaciuto, mi ha scritto Jazz. Una whattsappata che al messaggio comprensibile lasciava seguire una lunga (e meno comprensibile) riga di simboli. Messi insieme e fatti decantare avevano prodotto quale significato, dopo un po' di pensarci su, lo stupore di Jazz per il fatto che di fronte a quella ragazza (nemmeno più tanto ragazza) mi fossi accontentato di farmi raccontare la sua storia e di scriverla. Ho risposto al messaggio di Jazz con il simbolo del pollice girato verso l'alto. Questione di lasciarlo tranquillo. Non sa nulla. 

   Per dovere di cronaca, devo tornare al momento del nostro incontro in cui lei mi aveva descritto il quartiere nel quale vive: i preti che le affittano l'appartamento non le avevano nascosto le tentazioni alle quali lo stesso quartiere immancabilmente cede, sul far del giorno, come si dice, quasi fosse una clausola da mettere a contratto per evitare successive lamentele degli inquilini. Devo altresì ricordare la sua predilezione per le passeggiate fatte proprio la mattina presto. 

   Mi aveva parlato dei suoi smarrimenti solitari, lungo una strada e un'altra, una traversa e poi un'altra ancora: uno dopo l'altro, i passi la trasformavano lentamente (sentiva qualcosa, nella lentezza con la quale avanzava) in testimone di ben altri smarrimenti, comunicati dalle finestre aperte attraverso le quali provenivano come fossero spinte fuori da ventilatori accesi al massimo (si sarebbe detto: ostentate, ma non finte, soltanto ostentate) variazioni vocali femminili (in particolare femminili) che cercavano di stare dietro ai sussulti della carne (femminile, anch'essa, anche se non soltanto, come avrebbe potuto essere?). 

  Aveva continuato spiegandomi che adorava quel quartiere nel quale le donne facevano l'amore prima di andare al lavoro, lo facevano quasi fosse una gara per la quale le iscrizioni si chiudevano la sera prima. La notte trascorreva silenziosa, attraversata soltanto dal rumore di una motocicletta che passava di lì oppure, per chi aveva l'udito fino (lei lo aveva), dal russare prodotto da qualche maschio, sempre tuttavia tollerato dalla compagna di letto, poiché quel sonno ristoratore, sebbene un po' rozzo, non poteva che fornire la garanzia di un rinvigorito spirito agonistico che di lì a qualche ora avrebbe caratterizzato il risveglio. 

   Le piacevano quelle donne che urlavano il loro godimento, lasciavano che rimbalzasse da un appartamento all'altro, addirittura da un palazzo all'altro, sfruttando (grazie alla posizione favorevole della camera da letto, quindi non soltanto per merito) l'indice di riflessione acustica delle vetrate del caffè situato all'angolo: esse riverberavano tutto e fornivano una stima approssimativa della quota alla quale le (più) fortunate si trovavano rispetto alla vetta, lasciando intuire non soltanto la misura dell'ascesa compiuta, ma anche di quella che ancora (felicemente) restava da compiere, e (e) facevano così rapporto alle orecchie della collega di ufficio che viveva mezzo isolato più in là, la quale malauguratamente non poteva contare, per fare rapporto a sua volta, sulla presenza di vetrate amplificatrici sotto casa, anche se avrebbe tanto voluto averle, non fosse altro che per certificare di trovarsi anch'essa a un punto non del tutto trascurabile della scalata.  

   Si era appassionata, facendo e rifacendo lo stesso giro ogni mattina, alla voce di una donna: era bassa e roca, sicuramente questa fuma, si era detta una volta, eppure era una voce bella, emetteva una sorta di rantolo, un rantolo pieno di vita, una lenta agonia che supplicava (non soltanto se stessa) di non finire mai. Quando si alzava, quella nota, uscendo prepotentemente dalla finestra del secondo piano di una palazzina color giallo sbiadito, produceva l'effetto portentoso di chiamare a raccolta tutte le altre soliste, di suggerire il senso della disciplina fra le orchestrali nel momento più sfrenato ed eversivo della giornata, di mettere in fila dietro di sé gli archi insieme agli ottoni, i legni con le percussioni, insomma di raccogliere in un solo spartito quella meraviglia di voci femminili, e addirittura di costringere i maschi alla condivisione del tempo scandito e, cosa ben più importante, a un'interpretazione generosa della tempistica. L'aveva definita: la direttrice, perché era lei a decidere quando l'orchestra dei sospiri di quartiere avrebbe tagliato il traguardo. Mai (o quasi) prima di lei.

   Quel quartiere era riuscito a farla sentire viva, di nuovo. Dopo tanto tempo. Persino a farle, non dirò dimenticare, ma farla scendere a patti, questo sì, con l'impossibilità che, tempo prima, aveva attraversato violentemente il suo cammino di guerrigliera, di cecchina: quando aveva proposto al suo uomo di trascorrere una settimana d'amore (in realtà lei aveva detto: di sesso) a Istanbul, dopo la guerra, e lui si era fatto ammazzare prima che finisse.

   Cosa posso aggiungere? Che ho visto l'appartamento nel quale lei vive, in questa meravigliosa città innominabile. Le quattro fotografie appese alla parete, una soltanto mostra un ragazzo con la faccia sporca e gli occhi accessi ma divertiti, i libri impilati in un angolo del soggiorno, tutti letti, ho controllato, e nel breve corridoio, appoggiate lì come un fucile, un paio di scarpe eleganti con il tacco altissimo. Le metti mai?, le ho chiesto. Le metterò, ha risposto. 

   Jazz le tradurrà anche questa puntata del racconto. Che è vero. Come siete veri voi che lo leggete. E che continua.







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